lunedì 6 settembre 2010

LA LITE FINI-BERLUSCONI


LO SFIDANZAMENTO

Dopo tutto l'amor dato,
mò me scarichi pe' 'n altro,
del padano sei infatuato
e co' me voi fa lo scaltro.

Già è da 'n pezzo che m'ignori,
pure a letto ormai sei assente,
dai tuoi favori ormai son fuori,
e fai pure er prepotente.

Mò quell'altro ci ha pretese,
sur presente e sur futuro,
me riempie anche d'offese,
e l'umor me se fa scuro.

Se 'n' finisci co' 'sta tresca,
me ne vado coi miei figli,
co' quel verme vacce a pesca,
che 'na trota lì la pigli.

Solo 'n fatto ancor me tiene,
ci ho paura a restar solo,
è perche nun me conviene,
i miei fedeli han preso il volo !!!
di BRUNO PANUCCIO




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La lunga fuga di Schifani
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L’ultima volta che ho visto Renato Schifani da vicino fu in via D’Amelio, il 19 luglio del 2008. Esattamente un anno prima, nel luglio del 2007, avevo interrotto il mio silenzio durato sette lunghi anni, un silenzio che ero riuscito a vincere solo percorrendo a piedi, passo dopo passo e sentendo sempre vicino a me mio fratello Paolo, gli 850 chilometri che separano San Jean Pied de Port, sul versante francese dei Pirenei, da Santiago di Compostela, ed avevo scritto e diffuso sulla rete una lettera aperta a cui avevo dato il titolo “19 luglio 1992 : Una strage di Stato”. In quel primo 19 luglio a Palermo dopo lunghi anni di assenza, ero andato in via D’Amelio per sentirmi più vicino, nell’anniversario di quel giorno tragico, a Paolo e ai suoi ragazzi proprio nel luogo in cui i loro occhi avevano visto per l’ultima volta stagliarsi nel cielo azzurro di Palermo la sagoma del Castello Utveggio, che sovrasta Palermo da uno sperone del Monte Pellegrino, e la loro vita e i loro sogni erano stai bruscamente spezzati, insieme ai loro corpi, dall’esplosione di centinaia di chili di Semtex, l’esplosivo usato dai militari e dai servizi segreti.


Era circa mezzogiorno e vidi arrivare su una macchina blu, preceduto da una scorta di poliziotti motociclisti, Renato Schifani, da poco eletto presidente del Senato che si avviò per deporre una corona di fiori davanti allo stabile di via D’Amelio. Non davanti al numero 19, dove sul luogo esatto dove c’era la buca scavata dall’esplosione mia madre ha fatto piantare l’olivo che oggi tutti chiamiamo l’olivo di Paolo, ma ad una certa distanza, come se avesse paura ad avvicinarsi troppo.

Sentii forte l’impulso di farmi avanti, sbarrargli la strada e urlargli di andare a deporre quella corona davanti alla tomba di Vittorio Mangano e lo avrei sicuramente fatto se in quel momento non fosse arrivata un’altra macchina che portava la moglie di Paolo, Agnese, che avrebbe dovuto presenziare alla cerimonia.

Restai in disparte perché sapevo che il mio gesto, in quel giorno, la avrebbe turbata e non potevo prevederne le reazioni, ma fu proprio in quel giorno e in quel momento che giurai a me stesso e a Paolo che a nessuno degli sciacalli che ogni anno, dal 19 luglio del 1992, erano venuti a scorrazzare in via D’Amelio quasi ad accertarsi che Paolo fosse veramente morto, sarebbe più stato permesso di farlo.

Da quel giorno via D’Amelio non avrebbe più dovuto essere profanata da quegli avvoltoi e l’anno dopo, nel 2009, chiamai a raccolta per il 19 luglio quel movimento che era cominciato a nascere sulla rete composto da persone che si riconoscevano nella mia richiesta, portata in una serie infinita di incontri in tutte le città d’Italia, dovunque mi chiamassero, di Giustizia e di Verità sulle stragi del ’92 e del ’93.